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VENTI GIORNI SENZA GUERRA
(DVADSIAT DNEI BEZ VOJNY)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 9 novembre 1988
 
di Aleksej German, con Youri Nikouline, Liudmilla Gourtchenko, Aleksei Petrenko (Unione Sovietica, 1976)
"Venti giorni di permesso a casa, a Tashkent, mentre infuria Stalingrado. Vi sono tutti gli elementi del melodramma, del film di guerra (non rifiutato, per altro, nelle scene anche crude del fronte) in potenza: tutta l'abilità di German sta nel rifiutare la convenzione, l'emozione allo stadio più facile (ed è quello che ha dato fastidio ai censori?). Ne nasce, sul filo dello sguardo del protagonista, non giovane, non bello, una specie di Bogart, un'osservazione pacata, ma terribilmete tragica nella sua lucidità, dell'assurdità della guerra, del contrasto con la vita di tutti giorni, dei rapporti quotidiani, umani, che dovrebbero essere stabili.

Sdrammatizzazione di ogni scena, ma carica malinconica fortissima. Rotture di ritmo (il lungo racconto del soldato in treno, che non sa scrivere a sua moglie; la ragazza che insegue a lungo, il viso privo di emozioni come stesse compiendo un mesto dovere, il treno che parte per il fronte) che accentuano l'assenza del patetico, che approfondiscono la riflessione. I grigi infiniti, le nebbie della cittadina portano lo sguardo della cinepresa, che mai come qui da l'impressione di osservare il mondo: stupenda sequenza del protagonista assieme alla sua donna conosciuta per una sola notte, osservati attraverso un vetro, senza che se ne senta i discorsi ma soltanto s'intuisca la straordinaria gamma di sentimenti sui visi, mentre fanno colazione. Un sorriso, che indoviniamo mesto, assume una carica emotiva enorme.

Un film che si sofferma, anche con le lunghezze tipiche dei russi, sui visi, sui paesaggi (i cavalli condotti al pascolo, visti dal treno; lo sguardo dai toni documentaristici sugli abianti di quelle regioni remote): il tempo diventa allora palpabile. La provvisorietà della situazione angosciosa (come in quell'unica notte d'amore, la donna si alza a stirare la giubba, a lasciar passare ognuno dei minuti che la separano dall'alba livida del ritorno al fronte, a centellinare la propria tristezza nel momento della propria gioia) ne fa cosi uno dei grandi film sulla guerra: sulla sua ineluttabilità (bisogna scacciare Hitler fino a Berlino, difendere il sacro suolo della madre Russia) ma sopratutto sulla sua amoralità, anormalità orribile."


   Il film in Internet (Google)

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